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Lascio Firenze con le sue cupole sfumate, e Arezzo con il Crocifisso di Cimabue.
Il Cammino anche questa volta non si smentisce, ma ormai ne conosco le dinamiche e coltivo il silenzio osservandomi intorno e accogliendo a braccia aperte. All’inizio della prima tappa, che solitamente è quella più esaltante, non trovo le indicazioni per darmi il via e, se la guida indica soli 21 km, io ne faccio 32, perché a sbagliare percorso ci vuole un attimo.
I dislivelli sono ripidi e violenti. Tutti mi hanno sentito, anche Papa Francesco che da Roma ha deciso di concedermi l’indulgenza. Dopo circa due ore di inutili sali e scendi inizio il Cammino, sola, tra pinete ricoperte da un fondo ciottoloso e nuvole che si azzuffano per trovare uno spazio libero d’azzurro. Tra un bivio e l’altro riconosco i segnali del Cai e mi lasciò guidare, affidandomi a chi ha avuto la pazienza di pennellarli sugli alberi.
Eccola la croce del Belvedere che segna l’inizio del mio viaggio! Resto ottimista per poco tempo, fino a quando nel senso di marcia opposto al mio incontro un giovane ventenne di nome Claudio. Bresciano.
“La strada è sbagliata!” Mi urla.
“Vattene affanculo” gli rispondo.
Mi guarda allucinato mentre temo di aver contribuito al blocco della sua crescita.
“Scusa è che ho già sbagliato strada e ho girato a vuoto per più di un ‘ora. Tranquillo questa è corretta“.
Ho quarant’anni ma so essere scorbutica quanto un anziano impertinente.
Claudio è al suo primo Cammino e gli offro protezione, convincendolo ad unire i nostri passi sulla strada che parrebbe essere quella giusta. Si affida a me il giovane ventenne e la responsabilità dei segnali ancora una volta ricade su di me. Dopo qualche km di conoscenza incontriamo due viandanti, Luigi e Matteo, che come noi hanno unito i loro passi sulla strada. Questa è la nota positiva del Cammino, parti solo ma solo ci resti per poco, nella consapevolezza che nulla accade mai per caso.
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Dal Santuario della La Verna, dove Francesco ricevette le stigmate mi dirigo verso l’Eremo del Cerbaiolo, dove una laica di nome Chiara, donnina forte ma scorbutica, amante di gatti e capre, si ritirò per fare l’eremita. Morì nel 2010 e con lei pure le capre. Chiara la sento vicina.
L’eremo domina tutto l’ Appennino, tra le rocce che confinano i prati estesi. Padre Claudio che scopro aver prestato servizio a Librino, un quartiere catanese, mi dice di essere “spacchiosa” e per un momento mi riporta ai sapori della cucina siciliana facendomi dimenticare Coccoli e prosciutto crudo.
Io e i nuovi amici pellegrini ci separiamo per la notte confermando l’appuntamento per l’indomani a Passo di via Maggio, per cominciare la seconda tappa di Cammino insieme.
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Esco dall’Eremo e imbocco una salita costante e sempre più ripida, maledicendo me e la sigaretta fumata poco dopo la colazione. Alla mia destra intravedo una croce, finalmente la cima, e decido di fare una sosta rollandomi ovviamente una pueblo. A quote così elevate l’adrenalina della sigaretta equivale a quella della marijuana fumata in Villa Bellini. Prego un po’ Gesù e un un po’ Kobo Daichi per rimettermi poi in Cammino sotto una pioggia leggera e incontrare finalmente i tre amici pellegrini in un baretto anni 90, se non fosse per l’arredo semi moderno.
Vedersi è bello e camminare insieme pure, salvo poi divedersi per assecondare ognuno il proprio passo. Claudio, invece, sembra essersi legato a me quasi certamente come segno di riconoscenza per averlo salvato il giorno prima dalle insidie del bosco.
“Barbara aiutami”, sibila il giovane che sta per svenire. Lo soccorro, credo sia un giramento di testa ma così non è. Chiamo l’ambulanza che impiega più di mezz’ora per raggiungere la strada che ci ospita mentre sulla mia destra sfrecciano arroganti suv che se ne fottono del giovane moribondo e di quella che con il suo corpo lo ripara dalla pioggia incessante e dal vento. Lo copro con quel che possiedo ma non è sufficiente. Trema il giovane amico bresciano e temo il peggio per lui. La morte la conosco bene e cerco di non entrare nel panico.
Le sirene spiegate dell’ambulanza si fanno sempre più vicine: 39,7 la sua temperatura corporea e i soccorsi parlano di Covid; 35.6 la mia e mi chiedono se sono ancora viva.
Se ne vanno e mi lasciano li, sulla sp258, sotto la pioggia battente di un lunedì mattina.
Devo raggiungere Montagna, la fine della tappa, ma cammino non so per quanti chilometri sull’asfalto. I dolori aumentano e le caviglie non reggono più. Ho perso la deviazione e il gpx mi indica la direzione Sansepolcro per poi tornare indietro allungando di 20 km. Chiamo l’hospitalera di Montagna che mi avrebbe accolta per la notte: ascolta, non so come raggiungerti, sono arrivata a quasi a Sansepolcro, puoi venire a prendermi?
Ormai sono le 18, ho poca acqua nelle borracce e di fonti neppure l’ombra.
Norma viene in mio soccorso e la Divina Provvidenza si materializza in due Moretti ghiacciate ed una focaccia con salame e maionese
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Finalmente mi ritrovo in un luogo sicuro ed incantato in frazione Palazzo, dove saltellano piccoli bamby e conigli che mangiano le molliche di pane che gli lancio a distanza. Il pronto soccorso mi informa che Claudio sta bene e che il Covid non l’ha preso.
Mi rassereno lasciandomi cullare dai racconti di due nuovi pellegrini conosciuti presso la struttura di Norma: una coppia affiatata che da quasi cinquant’anni cammina fianco a fianco.
Con loro ho percorso i boschi per raggiungere nuovamente Sansepolcro, borgo medievale che diede i natali a Piero della Francesca e famoso, perlopiù, per l’iconografia del Sepolcro scoperchiato da Cristo ove ne esce vittorioso. Nell’opera sono raffigurati gli alberi secchi che ricordano la sofferenza della morte, ma anche alberi verdi i quali rappresentano la vita che rifiorisce sempre.
Nonostante gli imprevisti mi ossigeno tra i boschi e le foreste vivendo l’essenziale e la semplicità che solo il Cammino dedicato a San Francesco ti può regalare. E’ un Cammino povero, come povere sono le croci che ho incontrato arrangiate con pezzi di legno selvaggio.
Il Cammino non lo puoi programmare e ti insegna ad accogliere con umiltà tutto ciò che la Vita ti presenta ogni giorno; a prestare solidarietà a chi ne ha bisogno; a gestire l’imprevisto anche se allungherai la tappa di altri 20 km. Ti insegna che ogni sforzo a fine giornata è ben ripagato dal sorriso di uno sconosciuto che ti vede stravolta e ti offre dell’acqua o del buon vino per ristoranti.
E’ sempre faticoso caricarsi lo zaino in spalla riempito di arnica e antidolorifici, ma ne vale comunque la pena.
E anche se parti da sola, da sola, non lo sarai mai.
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